La storia di Maria
Prendo spunto dalla storia di una mia paziente (storia un po’ trasformata per ovvie ragioni di privacy) per parlare di un tema oggi molto discusso ma che non è affatto banale: la dipendenza affettiva.
Maria è una donna di circa 40 anni, molto bella, con un lavoro di responsabilità in cui crede e che la soddisfa. Viene da me perché dopo molti anni di matrimonio scopre che il marito ha avuto diverse amanti, l’ultima delle quali si presenta dalla mia paziente dicendole che quest’uomo le ha confessato di non poter vivere senza di lei e di amarla.
Maria, è distrutta dal dolore, mi dice che non sa spiegarsi come sia potuto accadere, che cosa abbia lei che non va come donna e come moglie. Mi racconta dodici anni di matrimonio in cui il marito è sempre fuori per lavoro e quando torna a casa c’è poco. Lei cresce tre figli praticamente da sola, lavorando e gestendo la casa: “Mi sono sempre sentita sola. Lui non c’era mai. Quando gli facevo notare questo, mi portava qualche regalo al ritorno dai viaggi di lavoro ma poi, dopo qualche tempo, tornava ad essere assente e distratto. Non ha mai parlato con un professore dei nostri figli, non sa neanche dove si trova lo studio del loro pediatra”.
Alla mia domanda su cosa la tenesse insieme a lui, Maria non sa rispondere, non si era mai fatta questa domanda. Farfuglia qualcosa sul fatto che sia un uomo simpatico e brillante. Carismatico. Ma nulla più.
Cosa, allora, tiene Maria “legata” a quest’uomo?
Nel corso delle sedute mi racconta la sua storia d’infanzia: una madre profondamente depressa da cui non si è mai sentita vista e che cercava disperatamente di far sorridere “facendo la pagliaccia” e un padre narcisista per cui doveva essere “la figlia modello. La migliore. Brava, bella. Una vincente.”.
Maria cresce con l’idea che per essere amati, visti e riconosciuti, bisogna fare “i salti mortali”, altrimenti non si esiste. Non si è degni d’amore.
La dipendenza affettiva è uno stato interno in cui si trovano tutte le persone che sentono di aver bisogno dell’altro per avere valore, per esistere.
È considerata una nuova forma di dipendenza che, diversamente da altri tipi di dipendenze, rischia di rimanere sottaciuta e “nell’ombra” (Guerreschi, 2011, p.46) anche per tutta la vita di una persona.
La questione, in realtà, venne portata all’attenzione già da Fenichel nel 1945 quando parlava di persone che necessitano dell’altro come si necessita di cibo o di droga.
Ma è solo negli anni ’70 che il tema diventa oggetto di studi ed approfondimenti, con la pubblicazione del libro “Women who love too much” della psicoanalista statunitense Robin Norwood.
Lebruto et al. (2023) parlano di dipendenza affettiva nel momento in cui il desiderio dell’altro è talmente forte da trasformarsi in un bisogno. La persona oggetto d’amore può diventare così vitale al punto di portare chi è dipendente da essa a trascurare molti ambiti della sua vita per dedicarsi esclusivamente alla relazione.
Le persone dipendenti cercano di costruire dei rapporti intimi molto stretti poiché temono che se l’altro se ne andrà, o si allontanerà anche solo in modo temporaneo, loro si sentiranno vuote, insignificanti.
Come nasce la dipendenza affettiva?
Le prime relazioni significative aiutano il bambino ad organizzare se stesso ed il mondo: dei genitori attenti ai suoi bisogni, presenti e amorevoli, gli permetteranno di sviluppare la sicurezza verso l’ambiente e verso le relazioni e gli consentiranno di sviluppare se stesso e la propria autonomia fisica e mentale.
Dei genitori fisicamente o psicologicamente assenti, distanti e poco empatici, non permetteranno al bambino di crescere sentendosi sicuro né del loro amore e né di se stesso.
Il bambino diventerà un adulto insicuro, che avrà bisogno degli altri per sentire di valere e del loro amore per esistere. Al tempo stesso, però, profondamente il bambino cresce sentendosi non meritevole di essere amato, proprio come non lo hanno amato mamma e papà.
La convinzione di non essere amabili porta queste persone a legarsi, da adulte, a partner narcisisti che hanno il terrore dei rapporti intimi e che, quando sentono il rischio di costruirli, tendono a fuggire per allontanarsene. L’allontanamento del partner terrorizzato dal bisogno d’amore del dipendente confermerà a quest’ultimo di non essere degno d’amore.
Ovviamente gran parte di queste dinamiche relazionali avvengono in modo inconsapevole: raramente nella coppia c’è qualcuno che volontariamente vuole ferire l’altro anche se poi, di fatto, questo accade.
Il vuoto del dipendente affettivo e la sua fame d’amore
Maria tutte le volte che era stremata dal “tira e molla” con suo marito si buttava a capofitto nel lavoro o macinava chilometri e chilometri di corsa: le attività lavorative e lo sport riempivano il vuoto, la fame d’amore che Maria sentiva da quando era piccola ma che sembrava non si potesse colmare mai: “È come se dentro avessi un buco, profondo. Cerco cose con cui riempirlo, ma puntualmente quel buco si svuota e sono punto a capo. Sono stremata dalla situazione con mio marito, ogni volta penso che dovrei cacciarlo di casa, ma poi non riesco. Se mi penso senza di lui mi manca l’aria.”.
Maria aveva scambiato il suo “bisogno di essere riempita dall’altro” per amore, idealizzando il rapporto con il marito. La scoperta delle amanti le aveva fatto aprire gli occhi e pian piano l’aveva portata a calare il suo rapporto nella realtà: “che rapporto è un rapporto in cui si è sempre soli, in cui c’è sempre uno che trascina l’altro e l’altro che si fa i cavoli suoi?”.
Questa scoperta l’aveva terrorizzata. Si sentiva sola, persa, rabbiosa. Maria era cresciuta senza qualcuno che la amasse e si sentiva a credito con il mondo per questo: l’altro doveva amarla sempre e incondizionatamente. Peccato avesse scelto un partner che continuava a confermarle la sua profonda convinzione di non poter essere amata: Maria si trovava continuamente a dover fare “i salti mortali” per essere vista da lui a cui lei, invece, si dedicava con tutta se stessa.
Nella dipendenza affettiva la persona riesce ad organizzare se stessa soltanto grazie all’amore dell’altro, proprio perché da piccola non ha potuto contare su un ambiente sicuro che gli permettesse di costruire una propria indipendenza.
In genere queste persone hanno storie familiari di perdite precoci, di genitori assenti (fisicamente o emotivamente) o genitori che vedono il figlio come estensione di sé per cui “vai bene solo se sei come dico io”.
Va da sé che crescono con l’idea che in realtà nessuno possa amarli per come sono, ma anche con la profonda speranza che prima o poi troveranno quel legame intenso che le riscatterà da tutte le assenze che hanno subìto. Da qui nasce la sensazione di avere sempre “fame” di amore.
Spesso le dipendenti affettive sono donne e si accompagnano a uomini narcisisti, almeno per la mia esperienza clinica e per i dati che ci offre Miller sulle casistiche delle dipendenze affettive (1994).
Altrettanto spesso sono donne che vengono dipinte, e si dipingono, come “deboli” o “vittime”.
Ho sempre odiato la parola “vittima”. Genera un senso di impotenza, di inferiorità.
Le persone che arrivano a studio da me, invece, sono brillanti, interessanti e capaci in moltissimi ambiti della loro vita: nel lavoro, nelle amicizie, nell’arte, nello sport … sembrano piuttosto andare in tilt nel momento in cui costruiscono dei legami affettivi. L’intimità richiama in loro un profondo senso di non valore, di non essere degne di amore e questo le rende insicure, instabili, confuse e incastrate in dei rapporti distruttivi in cui rimangono intrappolate senza riuscire ad uscirne.
Uscire dalla dipendenza: come riempire il vuoto?
Maria, dopo circa un anno di terapia, arriva da me disorientata, confusa ma felice: “Dottoressa ho conosciuto una persona, ha insistito perché ci prendessimo un caffè e io ho accettato. Non so perché, ero curiosa. Abbiamo passato due ore insieme, ho perso la cognizione del tempo con lui. E quando ci siamo salutati mi sono sentita leggera.”.
Nel corso della terapia Maria ha compreso quanto tempo aveva dedicato agli altri: ai figli, al marito … e mai a sé. Ha cominciato a chiedersi cosa le piacesse: si è iscritta in palestra, ha iniziato a seguire un corso di fotografia (sua grande passione da sempre), ha fatto spazio a se stessa e ha scoperto che questa cosa le piaceva. La faceva sentire viva. È riuscita con fatica a far uscire il marito di casa e a resistere fiera e orgogliosa ai suoi goffi tentativi di riavvicinamento.
È in quel periodo di trasformazione personale che è arrivato Riccardo nella sua vita: un uomo che c’era, che non si spaventava di fronte al bisogno di Maria di essere amata e vista, che la faceva sentire sicura che lui ci sarebbe stato.
Questo sapere che Riccardo c’era permetteva a Maria di prendersi i suoi spazi, sicura che al suo ritorno avrebbe ritrovato Riccardo e che lui l’avrebbe continuata ad amare.
È vero. Le nostre prime esperienze relazionali formano e indirizzano tutti i successivi rapporti affettivi ma questo non significa che se non abbiamo ricevuto sufficiente amore da bambini allora siamo spacciati per sempre! Alcune relazioni nel corso della nostra vita possono essere delle nuove opportunità per ricevere ciò che ci è mancato, o in cui sperimentarci in un modo in cui non ci siamo mai sperimentati. E allora può accadere, come è successo a Maria dapprima con la relazione terapeutica e poi anche con Riccardo, di costruire rapporti in cui provare la sensazione di essere visti e accettati per come si è.
Le relazioni appaganti che ci arricchiscono sono quelle in cui ci si sente sicuri, sereni e in cui si vive un senso di reciprocità.
Avere delle relazioni appaganti e vissute come stabili e sicure aiuta queste persone anche a coltivare i propri spazi e i propri interessi. In altre parole, imparano a costruire il proprio senso di valore personale indipendentemente dall’altro.
Costruire il proprio spazio di autonomia e coltivare relazioni equilibrate sono i due punti focali per uscire dalla dipendenza affettiva e per trasformare quel buco interiore in una pienezza di amore prima verso se stessi e solo dopo, verso l’altro.
Riferimenti bibliografici
Fenichel O. (1945), Trattato di psicoanalisi delle nevrosi e delle psicosi, Astrolabio, Roma;
Guerreschi C. (2011), La dipendenza affettiva. Ma si può morire d’amore?, Franco Angeli, Milano;
Lebruto A., Ciorciari V., Calamai G., Caccico L. (2023), Dipendenza affettiva. Diagnosi, assessment e trattamento cognitivo-comportamentale, Eickson Editore, Trento;
Miller D. (1995), Women who hurt themselves: a book of hope and understanding, Basic Books, New York;
Norwood R. (1985), Women who love too much, Penguin Books, London.