Parlare del tumore ai bambini


INTRODUZIONE
La presenza di una qualsiasi forma tumorale nell’infanzia è qualcosa che impatta in maniera fortissima nella vita familiare. È uno stravolgimento che genera un senso di sconforto e di impotenza. I dati riportati nel report del 2017 redatto dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) in collaborazione con l’Associazione Italiana Registri Tumori (AIRTUM) 2017 dimostrano che negli ultimi anni 40 anni è aumentato il tasso di sopravvivenza a seguito di patologie oncologiche in età pediatrica. Questo è un dato incoraggiante se si pensa a quanto possa essere difficile la diagnosi precoce per la maggior parte dei tumori infantili poichè possono esserci iniziali sintomi aspecifici o quadri clinici silenti (Guarino, 2006). Qualsiasi sia il decorso della malattia, il suo arrivo ed il processo di cure che ne consegue comportano una rottura di un equilibrio familiare che è molto delicato ricomporre.  La difficoltà sta nel fatto che spesso l’avvento del tumore porta con sé l’imprevedibilità delle sue evoluzioni e l’assenza di controllo su di esso da parte del bambino e della famiglia che lo assiste e lo supporta.

CONSENSO INFORMATO AL TRATTAMENTO: TRA NORMATIVA ED ESPERIENZA OSPEDALIERA
La Legge del 22 dicembre 2017 n. 219 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” prevede che per i pazienti che abbiano meno di 18 anni, ad esclusione di alcune eccezioni, sia necessario il consenso dei genitori per qualsiasi decisione debba essere presa riguardante la salute del bambino/ragazzo. Nella normativa suddetta è presente il focus sulla “volontà del minore, in relazione alla sua età e alla maturità […]” (Art. 3, comma 2); nonché la “valorizzazione” delle capacità di “comprensione e di decisione” (Art. 3, comma 1).

Nella prassi ospedaliera, in diverse realtà Italiane, i bambini più o meno grandi vengono informati circa la diagnosi ed il processo della malattia e delle cure e  lo staff è attento a differenziare l’approccio in base all’età. Il dottor Jankovic, medico che opera presso l’Ospedale San Gerardo di Monza, racconta in un’intervista sul Corriere della Sera (D’Amico, 2017) come sia diversificata la comunicazione con i pazienti pediatrici che affrontano un tumore: dai 16 anni firmano il consenso alle cure, ma sin dai 4/5 anni si parla ai bambini del tumore: dapprima con immagini o vignette e dagli 8 anni anche attraverso metafore.
Tra le diverse realtà territoriali, come all’Int di Milano o presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma (Tognaccini, 2017), esiste questa attenzione alla diversificazione delle informazioni e al coinvolgimento attivo del bambino (ove possibile). Inoltre sono presenti dei protocolli individualizzati e specifici attenti alle specificità dei singoli casi e al coinvolgimento e al supporto dei genitori durante il percorso di malattia del bambino.
Si è visto, inoltre, che costruire dei metodi individualizzati e interattivi per comunicare con i bambini rispetto al proprio stato di salute può influenzare positivamente il comportamento stesso dei piccoli pazienti: sarebbero, infatti, in grado di apprendere delle abilità per gestire i vissuti inerenti la malattia (Bradlyn, Beale, Kato, 2003).

La presenza di disposizioni legislative e di buone prassi da parte delle diverse realtà ospedaliere può non proteggere totalmente dai dubbi, dai timori e dal dolore che colpisce i bambini e le famiglie durante la malattia ed il suo trattamento.
Possono esserci situazioni in cui si desidera non affrontare l’argomento con i piccoli, come tentativo di proteggerli dal dolore e proteggere se stessi come genitori dalla drammaticità di tale evento. Ci sono poi altre situazioni in cui si vorrebbe parlare con i propri figli ma non si sa come poterlo fare.

PARLARE DEL TUMORE: INTERAGIRE A MISURA DI BAMBINO
Ottenere delle esaustive e chiare informazioni da parte dell’equipe curante è senz’altro utile per ricevere delle informazioni mediche su cosa sta attraversando il proprio figlio e su quali possono essere gli effetti collaterali dei trattamenti. Queste informazioni offrono una base per potersi relazionare con i bambini perché si possiedono delle conoscenze sia per rispondere alle eventuali domande, sia per scegliere il modo in cui spiegare al bambino cosa sta accadendo.

Differenziare le comunicazioni in base all’età dei figli.
Ad ogni età corrispondono delle acquisizioni a livello cognitivo e delle caratteristiche principali che vanno considerate in modo da poter adattare la comunicazione alle reali possibilità di comprensione del bambino.

– Se consideriamo il concetto di malattia, pensiamo che solo dagli 11 anni in poi i bambini iniziano a capire che la patologia ha una causa scatenante, mentre dai 2 ai 6 anni il meccanismo causale può essere espresso “in termini magici, fiabeschi” (Guarino, 2006, p. 56).
Quindi bisogna considerare che esistono periodi in cui i bambini possono pensare che l’arrivo della malattia non abbia origini organiche, ma che sia una sorta di punizione per qualche colpa che loro hanno (reale o fantasticata), mentre in altri momenti possono riconoscere la malattia come qualcosa di pericoloso che è arrivato dall’esterno, come nel periodo che va dai 6 fino agli 11 anni circa.

– Per quanto riguarda il concetto di dolore, sembra che la capacità del bambino di esprimere il proprio dolore fisico sia legata allo sviluppo cognitivo e alle capacità della memoria, ma è complesso individuare con esattezza il momento in cui diventa capace di comunicare la sofferenza, se pensiamo anche che la malattia può indurre dei momenti di regressione dovuti alla delicata fase che il bambino sta affrontando (Gaffney, Dunne, 1986).
È importante riuscire a distinguere l’incapacità di comunicare un dolore, dal tentativo di nasconderlo per evitare, ad esempio, delle cure mediche invasive o per non voler preoccupare i genitori.

Il concetto di fine vita si sviluppa parallelamente a quello della vita stessa. Dall’età di 6 anni circa il bambino percepisce la morte come evento reale e definitivo, ma non riesce a rendersi conto della propria mortalità. Dagli 11 ai 14 anni circa i ragazzi sanno che la morte è qualcosa di reale, può riguardare tutti ed è irreversibile, mentre dall’adolescenza in poi sono in grado di affrontare anche aspetti più simbolici del morire (Guarino, 2006).

– Per quanto riguarda la comunicazione delle emozioni e la risposta ad esse va detto che la capacità di produrre e riconoscere le espressioni facciali delle emozioni è innata (Ekman, Friesen, 1971), ma non lo è la capacità di esprimerle verbalmente o di comunicare in base alle emozioni manifestate dall’altro. Sin dai 2 anni, però, il bambino è in grado di mettere in atto dei comportamenti volti ad influenzare lo stato emotivo altrui (Belacchi, Gobbo, 2004, p. 131) e verso i 28 mesi può iniziare a comunicare alcune proprie semplici emozioni (come la rabbia, la felicità o la paura) (Shatz et all., 1983, Dunn et all., 1987). L’abilità di esprimere le emozioni cresce e si complessifica con l’avanzare dell’età, quando il piccolo inizia anche ad imparare la distinzione tra ciò che è mentale da ciò che è reale, distinzione che ha inizio verso i tre anni (Wellman, Estes, 1986). Questa differenziazione va tenuta presente nel momento in cui la malattia oncologica insorge in un periodo di sviluppo in cui il bambino non è ancora in grado di distinguere la realtà dalla fantasia, o il mondo interno da quello esterno, perchè questa incapacità può essere fonte di angoscia che deve essere quindi contenuta e ridimensionata.

– Un altro elemento importante riguarda la capacità di cogliere ciò che i bambini dicono per trasmettere qualcosa su di loro e quando, invece, interagiscono con l’adulto per nascondere qualcosa che li riguarda.
Può accadere che il bambino coinvolga i genitori per ricevere un supporto e per gestire il proprio dolore o spavento, ma può anche succedere che il piccolo cerchi di relazionarsi agli adulti per nascondere ciò che lo preoccupa o lo rattrista. Quest’ultimo caso si può verificare, ad esempio, quando il bambino tenta di proteggere se stesso o la famiglia da una sofferenza.
I bambini solitamente dicono bugie per evitare una situazione che per loro può essere spiacevole, come ad esempio un rimprovero. La questione più complessa riguarda la capacità di comprendere se la bugia nasce come semplice associazione tra il mentire e la risposta benevola del genitore che ne può seguire, o se i piccoli tengono conto di poter modificare lo stato mentale dell’adulto grazie alla loro bugia.
Più il bambino cresce e sviluppa le sue abilità cognitive e di mentalizzazione (ovvero la capacità di riflettere sui propri e altrui processi mentali), maggiore sarà la sua capacità di padroneggiare l’inganno. Sembrerebbe che con il progredire dello sviluppo intellettivo aumenti anche la consapevolezza dell’intenzione di ingannare ed anche il senso di colpa per averlo fatto (Gobbo, 2004).

COMUNICARE RISPETTANDO LE FASI
Per parlare della malattia al bambino, due aspetti vanno senz’altro tenuti a mente:  

  • le diverse acquisizioni del bambino durante lo sviluppo;
  • le fasi della malattia.

Per quanto riguarda il primo punto, è importante adattare la comunicazione alle possibilità reali del bambino di comprenderla. È possibile anche “diluire le informazioni” in più momenti e arricchirle o modificarle nel corso del tempo, man mano che il piccolo cresce. Più cresce, infatti, e più si amplierà la sua capacità di relazionarsi con l’adulto e di esprimere il proprio mondo interno.
Per ciò che concerne il secondo punto, invece, ogni fase della malattia può portare con sé paure o domande diverse da parte del bambino. È quindi importante tenere a mente la fase in cui si trova, per poter adattare la comunicazione su quelle che possono essere le difficoltà principali del piccolo.

Il momento della diagnosi è il momento della scoperta della malattia: è l’inizio dello stravolgimento nella vita del bambino e della rottura dell’equilibrio familiare. I bambini possono richiedere una maggiore vicinanza dei genitori, o possono esprimere la propria angoscia tramite attacchi aggressivi verso chi si prende cura di loro.
Molti piccoli pazienti intuiscono il loro effettivo stato di salute dal cambiamento di atteggiamento dei genitori nei loro confronti o ascoltando i dialoghi tra gli adulti, medici o familiari che siano.
Ascoltare la comunicazione degli adulti, senza che questi ne siano a conoscenza, può essere controproducente nel bambino perché rischia di alimentare delle sue fantasie o delle paure sullo stato della malattia. Mentre, come sottolineano Last e Van Veldhuizen (1996), se i bambini ricevono le informazioni sulla diagnosi  e sulla prognosi della malattia possono essere meno ansiosi o depressi.
Certamente ogni tipo di comunicazione va adattata all’unicità del bambino, alle sue preoccupazioni e alle sue domande. Per far questo è necessario imparare a conoscere quali sono i suoi timori e le sue speranze sul proprio stato di salute.  Solo così diventa possibile parlare “a misura di bambino”.
È importante che il genitore sin da subito non manifesti una reticenza a parlare della malattia. Non parlarne potrebbe trasmettere al figlio che il tumore sia qualcosa di cui non si può dire nulla, o un qualcosa che spaventa anche gli adulti al punto tale che neanche loro possono nominarlo. Secondo Lauria et all. (1996) aiutare i bambini a comprendere cosa sta accadendo loro, quali possono essere i possibili effetti collaterali dei trattamenti medici, o quali i possibili cambiamenti diagnostici, può essere utile per migliorare:
– l’aderenza alle cure;
– lo stato d’animo del bambino nell’affrontare il processo della malattia;
–  la qualità di vita del piccolo.

Trattamenti e remissione della malattia sono gli altri periodi da tenere in considerazione nel dialogo con il bambino. Durante i trattamenti può essere importante che l’adulto trasmetta empatia e supporto se il piccolo è stanco per via delle continue cure o se presenta dei forti disagi rispetto alla propria immagine corporea, che può essere più fragile o vissuta in modo negativo per via dei possibili mutamenti corporei conseguenti alla malattia.
Durante la remissione dei sintomi, o le dimissioni dall’ospedale, può essere importante individuare lo stato d’animo prevalente. Il bambino, infatti, può essere in uno stato di contentezza rispetto al proprio stato di salute e all’idea di poter ricreare la propria quotidianità nel suo ambiente domestico; ma può anche essere in ansia per qualcosa di brutto che pensa possa succedergli di nuovo.
Più il bambino cresce e si sviluppa e più si fa complessa la sua concezione di temporalità, di attesa e di durata. Anche questi aspetti sono importanti da considerare, specialmente nella preadolescenza e in adolescenza, quando una remissione della malattia rischia comunque di intaccare il senso di progettualità del ragazzo verso il futuro per la paura costante che il tumore si presenti nuovamente. Il genitore che individua gli stati d’animo del bambino/ragazzo ed è capace di verbalizzarli, aiuta il figlio a sentirsi in diritto di coinvolgere l’adulto, di viverlo come punto di riferimento e come colui che può ridurre la paura e l’ansia che il giovane paziente sta vivendo.

L’arrivo di una recidiva turba nuovamente un equilibrio familiare ricostruito dopo il trattamento della malattia. Anche in questo momento è utile incoraggiare il bambino a fare domande sulla situazione e ad esprimere i suoi stati d’animo. Particolare attenzione nel dialogo va data all’impatto che può avere sull’adulto l’aggressività del bambino. I genitori non dovrebbero scoraggiarsi o chiudersi nel silenzio se vengono “attaccati” in un momento già di grande dolore per loro. L’aggressività che può manifestarsi non necessariamente è negativa: può essere un modo con cui il bambino manifesta la sua paura, cosicchè l’adulto possa “prenderla, gestirla, metabolizzarla” per il figlio e, in qualche modo, alleviarla.

La fase terminale della malattia meriterebbe senz’altro una trattazione molto più approfondita per l’enorme destabilizzazione e dolore che coinvolge tutto il sistema familiare. Nelle linee guida del “Protocollo psicosociale per i bambini” (Lauria et al., 1996), viene evidenziato come in questa fase il bambino deve essere rassicurato che non è solo, che l’adulto è presente per alleviare il suo dolore e che il piccolo paziente va comunque sempre ascoltato rispetto ai desideri che ha nel momento in cui la sua vita si sta per spengere.

Voglio ricordare come il dialogo con i bambini è una risorsa se per gli adulti è percepito come tale e che, spesso, i piccoli possono essere più spaventati dalla paura degli adulti che non dalla propria.
Ovviamente, in ogni fase della malattia, anche i genitori hanno bisogno di supporto per poter sostenere i loro figli e per poter attraversare tutto il processo tumorale accanto a loro.

PERCHÉ IL DIALOGO PUÒ AIUTARE I BAMBINI?
Mai come nell’età dell’infanzia si impara a conoscere il mondo circostante e a costruire se stessi a partire dall’interazione con l’ambiente in cui si cresce. La prevedibilità degli eventi e delle risposte che il piccolo riceverà sono due elementi che lo rassicurano e gli permettono quella serenità necessaria per esplorare il mondo. L’avvento di un tumore in età infantile rompe questa prevedibilità: l’evoluzione della malattia ed il processo dei trattamenti possono essere imprevedibili. Nonostante le controversie rispetto alla quantità e alla tipologia di informazioni da dare al bambino, non parlare della patologia oncologica in atto potrebbe lasciare il bambino solo nella sua angoscia. Il dialogo è una risorsa perché, oltre a trasmettere il messaggio che gli adulti possono essere un supporto e che non hanno paura di affrontare l’argomento, consente anche di esplorare le fantasie disfunzionali che il bambino può aver costruito sulla propria malattia così da annullarle.

Capurso e Rocca (2014) mettono in evidenza come il bambino si possa sentire legittimato nel parlare della malattia se l’adulto trasmette il messaggio che essa è qualcosa di cui si può parlare: “l’ascolto e l’accoglienza”  (p. 47) sono due pilastri per permettere al bambino di sentire che l’adulto gli è vicino ed è pronto a confrontarsi con lui ed a rispondere a dubbi o contenere paure.

Coinvolgere il bambino nell’iter diagnostico e terapeutico significa farlo sentire “attivo, competente e capace” e donargli, seppur non totalmente, la sensazione di poter intervenire attivamente sul mondo.
La conoscenza implica la possibilità di possedere, almeno in parte, un senso di controllo sulla propria vita e sul proprio corpo, e questo riduce il livello di paura che un bambino lasciato solo a se stesso e alle sue fantasie potrebbe provare.

Sentirsi attivamente impegnato nella gestione della propria vita, e il poter prendere parte nelle decisioni che riguardano i trattamenti, sono due aspetti di particolare rilievo quando il tumore colpisce nell’adolescenza. Le capacità del ragazzo di comprendere le informazioni e di esprimere se stesso sono molto più ampie rispetto all’infanzia, così come anche la sua esigenza di autonomia.
Uno degli aspetti più delicati per i genitori nel parlare della patologia con i ragazzi sta nel riuscire a bilanciare l’essere presenti per rispondere a dubbi e domande e, al contempo, permettere al giovane di interessarsi spontaneamente al proprio stato di salute per essere quanto più possibile parte attiva nella scelta del percorso terapeutico da affrontare.

Riferimenti bibliografici

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