I DISTURBI ALIMENTARI: QUANDO È IL CORPO CHE PARLA

Quando nel mio studio arriva un paziente che mi racconta di un suo sintomo, spesso la richiesta che accompagna questa narrazione è quella di eliminarlo nella convinzione che, scomparso il sintomo, si dissolverà il problema.
Nella realtà delle cose la faccenda è ben più complessa poiché il sintomo è solo l’aspetto più esteriore e superficiale di una sofferenza più profonda.
Esso, infatti, ha un duplice valore: da un lato è motore di un problema e causa di un disagio; ma dall’altra è quel campanello d’allarme che ci indica che qualcosa non funziona più.
Il sintomo è un segnale che ci può aiutare a capire che qualcosa non sta più andando come dovrebbe.

Tricoli (2017) ci ricorda che il sintomo è un segno che esprime l’impossibilità di mettere in parole degli aspetti propri della persona che premono per uscire. E allora la strada per questa esternazione può diventare proprio il corpo.

PERCHÈ COMPARE IL SINTOMO
Come sottolinea Tronick (2005) ogni individuo è costantemente impegnato in un processo volto sia a mantenere lo status quo di come egli è e di come si è strutturato nelle sue distintive caratteristiche, sia a mettere in atto delle trasformazioni personali in virtù delle novità che la vita gli propone.
Ad ogni situazione di vita nuova la persona può rispondere con apertura e flessibilità (e allora arricchisce se stessa e si dona nuove possibilità) oppure, quando a prevalere è la paura, l’individuo si blocca poiché un cambiamento o una modifica di se stesso vengono avvertiti (spesso inconsapevolmente) come pericolosi per il proprio equilibrio psichico.
È in questo secondo caso che compare il sintomo: come espressione di qualcosa che ha bloccato l’individuo durante il percorso volto al raggiungimento di una più ampia realizzazione di sé.

QUANDO A PARLARE È IL CORPO
Nel caso dei disturbi alimentari, il corpo è al centro della scena: è proprio attraverso di esso che la persona esprime la sua dinamica di sofferenza, ma anche di richiesta di aiuto.
Questa dinamica viene esternata attraverso l’uso distruttivo del proprio corpo, un uso che compare per una mancata possibilità di gestire in un altro modo la propria profonda sofferenza emotiva.
Le varie tipologie di disturbi alimentari non sono altro che modi differenti di manifestare e gestire tutto questo.
Non bastano certo poche righe per descrivere le caratteristiche di tali disturbi, ma proverò a riportare di seguito una breve distinzione di quelli principali.

  • ANORESSIA NERVOSA : è caratterizzata da una preoccupazione eccessiva per il peso e per le forme corporee, che si manifesta attraverso una continua ossessiva paura di ingrassare e una spasmodica ricerca della magrezza.
    I pensieri attorno alla necessità di perseguire una magrezza ideale diventano pervasivi e finiscono per non lasciare spazio a nient’altro nella propria vita. Inizialmente la persona è concentrata sul forte desiderio di diventare magra, ma progressivamente la preoccupazione si trasforma in un’angosciante paura di prendere peso. Questo timore porta a mettere in atto una serie di comportamenti per dimagrire: spesso vengono compiute varie azioni volte ad evitare il più possibile di ingerire cibo, accompagnate da un aumento eccessivo dell’attività fisica. L’imposizione che il soggetto anoressico fa a se stesso è quella di mangiare il meno possibile per non ingrassare, questo porta con sé un senso di sfida personale e la sensazione di un controllo onnipotente sul proprio corpo. Al di là delle modalità con cui questo meccanismo si può manifestare, difficilmente la persona che soffre di anoressia riconoscerà di avere un problema o ammetterà di sentire costantemente fame. Tutte le energie sono spese per evitare di sentire questa “fame” pervasiva e per mantenere un controllo sul proprio corpo e sul proprio peso.
  • BULIMIA NERVOSA : la preoccupazione principale con cui si scatena questo disturbo è simile a quella che caratterizza la persona anoressica, ovvero la paura di ingrassare. Inizialmente, quindi, l’individuo cercherà di dimagrire per poter diventare sempre più magro. Questo desiderio porta ad alternare tentativi di restrizioni alimentari con momenti di abbuffate, seguiti da condotte compensatorie (principalmente il vomito autoindotto, ma possono esserci altre forme compensative come l’uso di lassativi o un’eccessiva attività fisica). In genere l’individuo tenta una dieta, o più diete iniziali, che però falliscono.
    A questo punto egli scopre che può procurarsi il vomito per eliminare le quantità ingerite di cibo ritenute eccessive. Il vomito, quindi, rappresenta un modo per esorcizzare la paura della perdita di controllo che l’assunzione di alimenti causa. Il comportamento tipico nella bulimia è quello dell’abbuffata: un’ingestione di grandi quantità di cibi calorici e “proibiti” che avviene in un breve lasso di tempo durante il quale la persona ha la sensazione di perdere il controllo. Questo stato di perdita di controllo può essere accompagnato da una vera e propria sensazione di alterazione di coscienza, a cui fanno seguito sentimenti di colpa e vergogna per le azioni intraprese, senza tuttavia riuscire a porre un freno a quest’ultime.
  • DISTURBO DA ALIMENTAZIONE INCONTROLLATA (BINGE EATING DISORDER) : questo disturbo è caratterizzato da ricorrenti (spesso più volte a settimana) abbuffate non seguite, però, da strategie compensatorie volte ad eliminare il cibo ingerito per controllare il peso. La difficoltà principale sembra essere quella di riuscire a controllare l’impulso eccessivo a nutrirsi, accompagnata da una forte insoddisfazione per il proprio aspetto corporeo. Come evidenziato nello studio di Crowther e Sanftner (1998), le persone che sviluppano questo disturbo hanno un peso eccessivo e, come nel caso della bulimia, provano sentimenti di vergogna, colpa e disprezzo di sé per aver mangiato troppo. Tuttavia, in questo caso, il mantenimento eccessivo del peso corporeo ha inconsapevolmente, una funzione di tutela psichica: può aiutare la persona a mantenere inconsapevolmente gli altri distanti da sé oppure farle sentire di avere un “peso” nel mondo.

A COSA “SERVE” IL DISTURBO ALIMENTARE?
Generalmente i disturbi alimentari compaiono in adolescenza. Esso, infatti, è il periodo in cui avvengono le trasformazioni corporee ed in cui si concretizza il processo di separazione psichica dalle figure genitoriali per avviare e completare il processo di costruzione della propria autonomia.
Nei disturbi alimentari il corpo, magro, diventa il segno unico e distintivo di bellezza e di valore ed esso si trasforma come l’esclusivo mezzo con cui gestire tutte le difficoltà legate all’autonomia, alla sicurezza di sé ed al controllo.
Spesso queste persone sono ambiziose, perfezioniste e molto esigenti con se stesse, motivo per il quale possono anche raggiungere brillanti risultati lavorativi o scolastici. Questo atteggiamento di dedizione e sacrificio però, come mettono in luce Ostuzzi e Luxardi (2003), cela una profonda insicurezza personale e la profonda convinzione di non poter essere accettati così come si è. Questa insicurezza genera il bisogno di essere sempre perfetti, e ciò causa spesso un pensiero dicotomico caratterizzato dal fatto che non si ha valore se non si raggiunge sempre il massimo. Il corpo diventa lo strumento attraverso cui esercitare questa necessità di sentirsi perfetti, e l’utilizzo (distruttivo) di esso si trasforma progressivamente nell’unico modo attraverso cui gestire la sofferenza del non essere accettati, accolti ed ascoltati.
Le trasformazioni del peso possono essere lette, in maniera simbolica, come un modo per esprimere il desiderio di essere visti (nel caso ad esempio di un peso eccessivo), oppure la sensazione di non valere nulla confermata attraverso il fatto di voler essere trasparenti (nel caso di una eccessiva magrezza).
In entrambi i casi, e al di là delle modalità con cui si “ sceglie” di gestire tutto questo, il disturbo alimentare cela dietro sé un profondo desiderio di essere amati, visti ed accettati così come si è.

COME RICONOSCERE I CAMPANELLI DI ALLARME?
Spesso i disturbi alimentari iniziano con delle diete ferree, ma è molto complesso riuscire ad identificarli precocemente perché le persone che ne soffrono non hanno la sensazione di avere un problema e, nelle fasi iniziali, i comportamenti messi in atto per perseguire i propri obiettivi di magrezza non si accompagnano a problematiche fisiche palesi (come ad esempio svenimenti, alterazioni dell’umore o, nel caso delle femmine, la scomparsa delle mestruazioni).
In seguito, quando iniziano a comparire le ripercussioni negative dei comportamenti messi in atto, la persona tenderà a minimizzare il problema e le sue condotte tese a mantenere il disturbo verranno attuate in modo sempre più nascosto per non dare possibilità all’altro di intervenire rischiando così di “rovinare” i risultati sino ad allora ottenuti.
Per la persona coinvolta non è semplice accettare di avere un problema, perché questo implicherebbe il fatto di mettere in discussione se stesso ed affrontare tutto ciò che fa paura e che, sino a quel momento, è stato gestito solo attraverso il cibo.
Al tempo stesso anche per i familiari non è semplice voler vedere il disturbo alimentare, perché questo significherebbe mettere in discussione le proprie modalità relazionali utilizzate sino ad allora con il membro della famiglia che sta soffrendo, e fare i conti con i sentimenti di colpa o di responsabilità per la situazione che quella persona sta vivendo.

Sicuramente è più semplice che i primi ad accorgersi che qualcosa non va, e ad essere motore della richiesta di aiuto, siano persone emotivamente coinvolte con chi soffre di un disturbo alimentare.

I primi segnali utili per ipotizzare che una persona stia soffrendo di un disturbo alimentare sono:

  • Drastico cambiamento del peso corporeo (progressiva eccessiva magrezza o rapido aumento di peso);
  • alterazioni del comportamento alimentare (presenza di comportamenti inusuali come ad esempio: la riduzione drastica della quantità di cibo ingerito o alternanza eccessiva nelle quantità di cibo ingerito o, ancora, il taglio minuzioso di ogni alimento del pasto ecc.);
  • alterazioni del comportamento generiche (come ad esempio: l’eccessivo perfezionismo che pervade ogni ambito di vita ed il progressivo evitamento di ogni momento conviviale con parenti ed amici che conduce, pian piano, ad un totale isolamento).

Ostuzzi e Luxardi (2003), descrivono anche a quali segnali di emergenza prestare attenzione quando la situazione sta visibilmente diventando pericolosa:

  • Instabilità dell’umore;
  • alterazione del sonno;
  • pensieri suicidari o autolesionismo (presenza di graffi, escoriazioni, bruciature ecc.);
  • dolori al torace, aritmie cardiache, forti dolori addominali;
  • svenimenti;
  • stanchezza, difficoltà respiratorie;
  • gonfiori alle gambe o sensazione di formicolio;
  • vomito continuato per tutto il giorno, o ogni volta che si mangia, e/o presenza di vomito con sangue.

AIUTARE LE PERSONE CHE SVILUPPANO UN DISTURBO ALIMENTARE
Come accennavo sopra, molto spesso le prime a mobilitarsi per affrontare il problema sono le famiglie. Non è semplice coinvolgere chi soffre di un disturbo alimentare nel processo di cura: chi ne soffre finisce per identificarsi con questo disturbo e sente nell’aiuto terapeutico una minaccia alla propria intera identità.

  • PER I FAMILIARI: è importante rivolgersi a professionisti competenti, o a centri specializzati, e non cadere nel pensiero di poterne uscire da soli.
    Il disturbo alimentare spesso coinvolge l’intero sistema familiare e, inoltre, è funzionale che i componenti familiari continuino ad avere quel ruolo e non anche il ruolo di aiuto. Quest’ultimo, infatti, rischia soltanto di fare confusione rispetto alla relazione costruita e mantenuta con la persona che ha problemi alimentari.
    È importante, per riuscire a fare questo, che il sistema familiare sia unito e deciso nel prendere una posizione comune di fronte al problema per poterlo affrontare.

Può essere importante, accanto ad un lavoro terapeutico individuale con la persona portatrice del disturbo, un lavoro “di cura” del sistema familiare per poter lavorare sulle dinamiche critiche relazionali di cui il sintomo alimentare può essere espressione.
Per questo spesso è prezioso il lavoro in equipe; lavoro che prevede il coinvolgimento di diverse figure professionali.

  • PER LA PERSONA CHE SOFFRE DI UN DISTURBO ALIMENTARE: il passo più complesso sta nel trovare la forza di chiedere aiuto. Nessuno può essere aiutato se non sente che, almeno in minima parte, sta vivendo un disagio.
    Credo fortemente che chi è sempre impegnato nel gestire un disturbo alimentare sia completamente assorbito da esso: tutta la sua vita, il suo umore, la sua autostima e le relazioni dipendono da quanto egli sente di poter avere un controllo sul cibo e sul proprio corpo.
    Indebolire questo legame è complesso ma possibile, e questa possibilità è data dal fatto che il lavoro terapeutico porta la persona a costruire un amore per se stesso e una propria autostima che sono slegati dal proprio aspetto esteriore. Costruire una sicurezza personale significa portare l’individuo a piacersi così com’è, abbassando le pretese e il bisogno di perfezionismo che lo pervade.

La dinamica caratterizzante la persona che soffre di un disturbo alimentare è centrata sul controllo di se stesso e della relazione con l’altro attraverso il proprio corpo ed il cibo.
Il corpo diventa “un mezzo” (Comelli, 2014, p.49) per poter comunicare un disagio non esprimibile in altro modo.
Il controllo espresso attraverso la gestione disfunzionale del cibo rappresenta il tentativo di controllare i propri confini di fronte all’altro che cerca di avvicinarsi. Poiché la persona con un disturbo alimentare non ha potuto costruire una propria autonomia e sicurezza, può vivere come minaccioso per sé ogni tentativo di avvicinamento dell’altro e, di fronte a ciò, provare a rivendicare attraverso il controllo sul proprio corpo un’autonomia (che ovviamente è fittizia): “[…] non già ad un corpo che vivo e che contribuisco a far vivere, quanto ad un corpo da cui sono vissuto […]” (Ibidem, p.68) , come se la persona fosse schiacciata e imprigionata da se stessa all’interno di un sistema disfunzionale.
Come suggeriscono Belotti e Negri (2017) tale controllo spesso viene riproposto nella relazione terapeutica, attraverso la visione di una relazionale possibile solo se centrata esclusivamente sulla “lotta” per avere il potere sul rapporto.
Rompere questo modo di rapportarsi a sé e all’altro significa creare le basi per una relazione incentrata sulla fiducia, sul rispetto e sull’ascolto reciproco, e non più sulla lotta per poter sentire di esistere.
Inoltre, diventa fondamentale il lavoro di alfabetizzazione emotiva e di contatto con il proprio mondo affettivo. Tutto ciò è importante per permettere alla persona di esprimere in parole ciò che fino a quel momento è stato espresso solo attraverso il corpo, in quanto sono mancati gli strumenti per avvalersi di altri canali comunicativi.

Attraverso il lavoro terapeutico si avvia una “rinascita” personale e relazionale. Essa dovrebbe permettere la costruzione di una fiducia personale, e di una fiducia nelle relazioni con gli altri, che possa essere mantenuta poi anche al di fuori della stanza della terapia.

 

Riferimenti bibliografici

Belotti L., Negri A. (2017), Sulla funzionalità dei sintomi e dei problemi. I pretesti professionali della psicologia clinica, in Ricerca Psicoanalitica. Rivista della relazione in psicoanalisi, 3, XVIII, 21-35;

Comeli F. (2014), Il corpo oggetto della colpa primaria, in Ricerca Psicoanalitica. Rivista della relazione in psicoanalisi, 2, XXV, 47-69;

Crowther J.H., Sanftner J.L. (1998),  Variability in self-esteem, moods, shame, and guilt in women who binge, in International Journal of Eating Disorders, 4, 23, 391-397;

Ostuzzi R., Luxardi G.L. (2003), Figlie in lotta con il cibo. Un aiuto per genitori, le ragazze, gli insegnanti e gli amici, Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano;

Tricoli M.L. (2017), Il sintomo: da indice di malattia a espressione di un soggetto unitario, in Ricerca Psicoanalitica. Rivista della relazione in psicoanalisi, 3, XVIII, 9-19;

Tronick E. (2005), Why is connection with others so critical? The formation of dyadic states of consciousness and the expansion of individuals’ states of consciousness: coherence governed selection and the co-creation of meaning out of messy meaning making, in Nadel J., Muir  D. (Ed.), Emotional development (pp. 293-316), Oxford University Press, Oxford, UK.

 

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